L’ho conosciuta sui banchi della prima media, una bambina semplice ma già responsabile. La famiglia di provenienza contadina, il babbo era stato catturato dai nazisti proprio il giorno della “svolta”, l’8 settembre, e condotto prigioniero in un lager nazista; sopravvissuto e un poco zoppicante, era diventato un amatissimo bidello delle elementari. A casa pensava a tutto lui, dalla spesa al pranzo, ma anche la moglie quando tornava dopo una giornata a cucire tomaie in un calzaturificio, non era da meno: era una maga con i ferri e l’uncinetto, e la figlia oggi sa fare di tutto.

Io ero un po’ presa da un’altra amica, la figlia di un poeta: non che fosse da meno, ma a quell’età la mancanza di esperienza porta a non saper discernere nel modo giusto. Era più lei affezionata a me che io a lei, ma la vita e la perseveranza e tenacia di quella ragazza di poche parole l’hanno vinta su tutto: quando ho avuto bisogno di pace sono stata accolta a casa loro come e più di una figlia. Quel poco di saggezza che oggi ho lo devo in gran parte a loro. Quel padre che non ho avuto l’ho trovato in quella casa. Mi hanno insegnato di tutto, e la bellezza e purezza dei rapporti umani quando sono semplici, e più sono semplici più sono belli.

Io continuando nei miei sogni di grandezza puntualmente infranti, loro a piccoli passi costruendosi un solido futuro.

Il fidanzato l’abbiamo trovato pressoché insieme, anzi fu proprio uscendo con lei che conobbi il mio allora futuro oggi ex marito, tanto che lei e il fidanzato mi furono testimoni di nozze.

Era un parà (il suo…) che prestava servizio a Livorno, nipote di un compagno di prigionia del babbo. Si sposarono che io ero già in Sardegna, perché mentre io prendevo le decisioni a cavolo loro si preparavano. Infatti ha funzionato: una vita piena di sacrifici ma nel contempo di grosse soddisfazioni, tre capannoni e tre case vicine una per la famiglia di lui, un’altra per i genitori che si sono goduti una meritata vecchiaia, e l’altra ancora arrivata da poco per la prima figlia che si è sposata. Un lavoro duro e costante, fabbricano infissi. Anche lei non si ferma un attimo, da quando apre gli occhi la mattina a quando li chiude la sera, credo che senza di lei la famiglia sarebbe una macchina senza motore.

Quando li vado a trovare sono una di casa, posso stare quanto voglio sapendo anche di farli felici: andiamo in giro insieme, chiacchieriamo da mane a sera, abbiamo tanti ricordi da tirar fuori dal cassetto. Babbo Nello non c’è più, mamma Emma resiste egregiamente da serena novantenne.

Lei si chiama Marisa, è la mia amica del cuore. Vive in un paesino in provincia di Ferrara: il boato del 20 maggio lo sente ancora, ancora vede la casa che esegue una danza diabolica, tutto che le girava intorno e lei che ripeteva “è finita”… La corsa fuori, mamma Emma si ferisce a una gamba, le case sono lesionate, il tetto di un capannone è in parte crollato. Dopo notti in macchina sono riuscite a stendere le gambe in una roulotte, e infine a noleggiare un container. Non sa ancora se e quando ce la faranno a riprendersi, a tornare come prima. Ma intanto si rimbocca le maniche: la fatica la conosce bene, hanno percorso tanta strada insieme. Io non posso fare altro che abbracciarla per telefono, e mi sento tanto impotente e inutile, di fronte a una donna così grande, o meglio: a una grande donna.

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